Risoluzione del contratto d’appalto: cos’è, quando avviene e quali sono le conseguenze

Off Di

Il contratto d’appalto rappresenta un accordo tra due parti che si impegnano reciprocamente: da un lato il committente, dall’altro l’appaltatore. Quando una delle parti non adempie alle proprie obbligazioni, si può arrivare alla risoluzione del contratto, cioè allo scioglimento del vincolo contrattuale secondo quanto previsto dal codice civile.

La risoluzione per inadempimento è la forma più comune di scioglimento del contratto d’appalto. Secondo la disciplina generale, quando una delle parti non esegue le prestazioni dovute, l’altra può scegliere se richiedere l’adempimento o la risoluzione, mantenendo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno. Questa richiesta può essere presentata al giudice, che valuterà la gravità dell’inadempimento, la quale deve essere rilevante e superiore rispetto a quella richiesta in altri tipi di contratto, come la vendita. In alternativa, le parti possono prevedere all’interno del contratto una clausola risolutiva espressa, che consente la risoluzione automatica in caso di mancato rispetto di specifiche obbligazioni.

Quando l’inadempimento riguarda l’appaltatore, spesso si manifesta attraverso la realizzazione di un’opera difforme o viziata rispetto a quanto concordato. Se i difetti o le difformità sono tali da rendere l’opera impropria alla sua destinazione, il committente può richiedere la risoluzione del contratto. Altre situazioni che giustificano la risoluzione sono la mancata esecuzione dell’opera, un’esecuzione solo parziale, tardiva o il rifiuto di consegna. In questi casi, non si applicano le norme tipiche sui vizi dell’opera, ma entra in gioco direttamente la disciplina generale sull’inadempimento. Il committente deve dimostrare l’esistenza dei vizi o delle difformità per sostenere la propria richiesta di risoluzione. È importante sottolineare che la richiesta può essere avanzata solo quando i difetti sono di tale gravità da impedire la destinazione dell’opera, e che, se il problema riguarda i tempi di esecuzione, la domanda deve essere presentata durante l’esecuzione dei lavori e non dopo il loro completamento.

Riguardo alle richieste che possono essere avanzate in giudizio, la legge stabilisce che, se una parte ha già chiesto la risoluzione, non può più pretendere l’adempimento. Tuttavia, è possibile, secondo la giurisprudenza, chiedere contemporaneamente sia la risoluzione sia la riduzione del prezzo o l’eliminazione dei vizi, purché tali domande siano presentate in modo subordinato, nel caso in cui venisse meno l’interesse principale alla risoluzione.

Durante l’esecuzione dell’opera, il committente ha la facoltà di controllare l’avanzamento dei lavori e, se riscontra difformità, può diffidare formalmente l’appaltatore a conformarsi entro un termine. Se l’appaltatore non si adegua, il contratto si risolve automaticamente senza necessità di ricorrere al giudice. Questo diritto di controllo non costituisce però un obbligo per il committente, e la risoluzione può avvenire anche in assenza di tale controllo.

Anche il committente può essere responsabile di inadempimento, in particolare se non provvede al pagamento del prezzo nei tempi e nei modi previsti. In tal caso, l’appaltatore può agire per ottenere il pagamento, ma deve dimostrare di aver adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni. L’appaltatore può anche chiedere la risoluzione solo se subisce un concreto pregiudizio. Un classico caso di inadempimento del committente è l’interferenza ingiustificata nell’attività dell’appaltatore, ad esempio sospendendo i lavori senza valida ragione. Esistono anche ipotesi particolari, come il mancato sgombero del cantiere, che possono essere riconosciute come cause di risoluzione.

Oltre all’inadempimento, la risoluzione può avvenire anche per impossibilità sopravvenuta della prestazione, cioè quando l’esecuzione dell’opera diventa oggettivamente irrealizzabile per cause non imputabili alle parti. In questi casi, il committente deve comunque pagare la parte di opera già eseguita, nella misura in cui risulti utile per le sue esigenze, secondo quanto previsto dalla legge.

Gli effetti della risoluzione sono regolati dal principio della retroattività, cioè il contratto si considera come mai esistito tra le parti, e ciascuno è tenuto a restituire quanto ricevuto. Questo effetto vale per i contratti ad esecuzione prolungata, mentre per quelli ad esecuzione continuata o periodica, la risoluzione non incide sulle prestazioni già eseguite. In seguito alla risoluzione, il committente non è più obbligato al pagamento e può chiedere la restituzione delle somme già versate e dei materiali eventualmente forniti, mentre l’appaltatore, se si tratta di un’opera mobile, ne conserva la proprietà e può reclamarla se già consegnata. Per le opere immobili, il committente può scegliere se richiedere la demolizione o acquisire la proprietà dell’opera, con la possibilità di riconoscere un’indennità all’appaltatore in caso di arricchimento.

Il contratto d’appalto può sciogliersi anche per effetto del fallimento di una delle parti. In tal caso, il contratto si risolve automaticamente salvo che il curatore fallimentare, con l’autorizzazione degli organi della procedura, dichiari di voler subentrare nel contratto entro un determinato termine, offrendo adeguate garanzie. La risoluzione per fallimento è priva di effetti retroattivi e non comporta diritti risarcitori tra le parti. Eventuali domande già proposte in giudizio diventano improcedibili e devono essere ammesse al passivo della procedura concorsuale.

Infine, la morte dell’appaltatore può portare alla risoluzione solo se la sua persona era stata ritenuta essenziale per l’esecuzione dell’opera. In questo caso, il committente è tenuto a riconoscere agli eredi un’indennità proporzionata al valore dell’opera già eseguita e al rimborso delle spese sostenute, nei limiti dell’utilità delle prestazioni già rese. Questa previsione si applica tipicamente quando il contratto era stato concluso per le capacità personali dell’appaltatore e non nel caso di imprese o società, che proseguono la loro attività anche dopo la morte del titolare.